2 giugno


1959
Lo Schiaffino di Alessandria

Domenica mattina. In questa città di provincia del Piemonte un signore di età piuttosto avanzata è uscito presto di casa, quattro passi nella frescura e prima di tornare si ferma in edicola e acquista il giornale. Lo sfoglia rapidamente, si ferma solo alle pagine dello sport. E' vero, oggi finisce il campionato, pensa. In verità è già finito, lo ha vinto il Milan. Scuote la testa, ci dev'essere un pensiero che lo rattrista. Eccolo: il Toro va in serie B, la matematica non è un'opinione, e i punti sono quelli: tre meno della terz'ultima. Nella città in cui vive il signore in questione spesso il Toro veniva a giocare, e qualche volta persino buscava. Lui andava allo stadio, erano bei tempi. Dieci, quindici anni fa, non il secolo scorso. Poi si sa com'è finita, lasciamo perdere. Quasi quasi. Ecco, sarebbe la giornata buona per andare alla partita, c'è il sole ma non fa ancora troppo caldo. Il giornale è rimasto aperto sulla pagina delle cronache sportive. L'uomo inforca gli occhiali. "Anche ad Alessandria incontro di cartello per l'ultima gara casalinga dei grigi. Di scena sarà l'Inter e la partita non dovrebbe riservare molte emozioni poiché le due squadre sono in posizione tranquilla di classifica. Gli ultimi cinque incontri positivi hanno definitivamente salvato l'Alessandria dalla retrocessione". Almeno questo, sospira. "Tra le file dei grigi è annunciato l'esordio del più giovane giocatore d'Italia della massima divisione, Gianni Rivera, nato il 18 agosto 1943 nel sobborgo di Valle San Bartolomeo". Ah, gioca il ragazzino? "Rivera non ha ancora sedici anni e già lo si vedrà alle prese contro fortissimi avversari. E' tempestivo il lancio del ragazzo a fine campionato, impegnato in una prova molto severa, senza una adeguata preparazione e acclimatazione alle gare di responsabilità? " Mah. "Certo l'attesa è vivissima tra le file degli sportivi locali che, con esagerata euforia, hanno definito il sedicenne debuttante niente meno che lo Schiaffino alessandrino". Mah. Ecco il portone di casa. Fine della passeggiata. L'uomo avvolge pensieri e giornale da qualche parte, e chissà se dopo pranzo deciderà di andare alla partita.



1971
Totaalvoetbal

Un gruppo di pedatori olandesi schierato con la grande coppa per le foto-ricordo non regalava immagini assolutamente inedite al continente calcistico. Detentore era il Feyenoord, e aveva trovato un posto nell'albo d'oro sgominando il Celtic, che aspirava alla seconda nicchia. E ancora due anni prima, in fondo, i lancieri avevano pure e appunto già lanciato la loro sfida, respinti dall'esperta (è un eufemismo) truppa rossonera. Exploit che molti superficiali osservatori ritenevano casuali, nell'epoca in cui il calcio praticato dalle nazionali rifletteva ancora la tradizione dei club (e viceversa); e nessuna pagina rimarchevole avevano mai scritto, dalle origini del gioco, la terra dei mulini a vento e le squadre delle sue maggiori città. D'altra parte, che significativi e irreversibili mutamenti fossero in atto è testimoniato anche dallo sparring-partner dell'Ajax sul sempiterno prato di Wembley. Nessuno più dell'uomo che sbucava dal tunnel, guidando i verdi del Panathinaikos all'inevitabile sacrificio, poteva rappresentare il passato, quale testimone di un football definitivamente consegnato a storie e leggende. Ferenc Puskás non era solo l'Aranycsapat o il grande Real: simboleggiava il calcio della mitteleuropa che era stato sempre avanguardia, sin dagli anni '20, calcio di grandi e inutili vittorie e di inattese e importantissime sconfitte. A lui il compito di testimoniare l'avvio di una nuova epoca, perché l'antica non venisse del tutto dimenticata.
Fu dunque alla sacerdotale presenza di Puskás, estemporaneo allenatore del Panathinaikos, che il ventiquattrenne Johann Cruijff, l'Ajax disegnato da Rinus Michels e il suo rivoluzionario Totaalvoetbal, poi replicato con maglie di colore diverso nella competizione fra le nazioni, si presero la Coppa, avviando un'egemonia tecnica e soprattutto culturale che, per molti aspetti, perdura.
Cineteca



1978
Il girone de la muerte

A distanza di poche ore l'una dall'altra, Italia e Argentina - sorteggiate insieme nel girone de la muerte - debuttano alla coppa del mondo. Los italianos nell'assolato pomeriggio di Mar del Plata; l'albiceleste tra i coriandoli del Monumental. L'inizio è, per entrambe, nefasto. Gli azzurri vanno sotto dopo pochi secondi, praticamente senza mai sfiorare la pelota; l'Argentina dopo nemmeno dieci minuti (foto). Il discorso intavolato da Francia e Ungheria è di fondo abbastanza semplice: non hanno attraversato l'Atlantico solo per abbuffarsi di parillada. Furente e sgarbata la reazione degli ospitanti, serena ed elegante quella italiana. Entrambe vincono di rimonta, e agli osservatori più sgamati tutto appare chiaro sin da queste due prime partite: gli azzurri giocheranno il miglior calcio del torneo; gli argentini non si concederanno alcuno scrupolo, pur di vincerlo.
Cineteca: Italia-Francia | Argentina-Ungheria


1993
Anche a Oslo gli inglesi subirono una dura lezione

A ben guardare, il pallone degli inglesi, quando attraversa la Manica o lo portano su terre aliene varcando i mari e gli oceani, si sgonfia subito. Gli amici americani stravedono per loro - o fingono di stravedere -, e certo avere al mondiale la Norvegia invece dell'Inghilterra non sarebbe una bella cosa. E invece andrà esattamente così. A Oslo, la truppa albionica - maldiretta da Graham Taylor, che improvvisa soluzioni e strategie per rimediare strategicamente a soluzioni che improvvisamente non funzionano più - sbanda e incassa un due a zero che comporta la necessità di andare a vincere in Olanda, il prossimo 13 ottobre. Certo, come no. La stampa britannica ha capito l'antifona e asseconda gli umori dei followers: "We're so bad, it's unbelievable". Vuole la testa di Taylor, che ha scommesso tutte le sue carte su un cerebrale 3-4-1-2: "era un piano di gioco coraggioso e immaginifico, ma preparato con una sola sessione di allenamento, e mentre l'Inghilterra cercava di disporsi ordinatamente in campo, la Norvegia aveva già vinto la partita" (Joe Lovejoy, The Independent).