14 giugno

1938
Appuntamento al Vélodrome

Prima o poi doveva pur accadere. Accadrà dopodomani a Marsiglia: Brasile e Italia al primo rendez-vous della loro storia. Già, alla fine i sudamericani ce l'hanno fatta: sono venuti a capo della rognosissima Cecoslovacchia, ma sono state necessarie due partite. La gente di qui - che di football capisce pochissimo - stravede per loro. Sono dei prestigiatori del pallone. Hanno una nozione di gioco collettivo molto approssimativa, e per questo l'undici di Meissner li ha tenuti in scacco così a lungo: l'improvvisazione non prevale mai facilmente sulla tenace tessitura. Gli italiani ora dicono di temere la sfida. Pozzo piange finte lacrime, "era meglio incontrare i cechi!", sbraita. Solo Ugo Locatelli mostra quale sia il vero stato d'animo della truppa. "Lo dice anche il proverbio, il diavolo non è tanto brutto quanto lo si dipinge, vedrete che questi brasiliani saranno dei ... bei ragazzi". Preistoria della pretattica.
Brasile-Cecoslovacchia: cineteca


1970
La vendetta di Montezuma

"The start of a run of massive matches in which English hearts were broken by the Germans". Di chi fu la colpa? Ovviamente di Sir Alf, che gestì male i cambi  nel corso del secondo tempo. Ma soprattutto di Montezuma, la cui vendetta è sempre in agguato da quelle parti. Colpì difatti Gordon Banks, l'uomo che aveva fermato Pelè: "If anyone had to be ill, why did it have to be him?", sarà il rimpianto  di Ramsey, costretto quel giorno a schierare tra i pali 'The Cat', l'esordiente Peter Bonetti. Di fatto, gli inglesi si portarono abbastanza facilmente sul due a zero. Banks era rimasto in albergo, e seguiva il match in televisione; "after another visit to the bathroom, he returned to his bed and, feeling rough and sleepy, switched off his TV set to take a nap, assuming the match was won". Sir Bobby Charlton uscì quando i tedeschi avevano appena segnato l'uno a due (liscio di Bonetti su destro dal limite del Kaiser, elegante ma centrale e più che resistibile) e mancavano venti minuti alla fine. Sir Martin Peters uscì poco prima che i tedeschi impattassero sul due a due, quando alla fine mancavano dieci minuti. Extra-time, come quattro anni prima. Punteggio identico. Ci vuol poco a immaginare chi fece il terzo gol (foto), e quale maglia indossava, e quanto amaro fu il risveglio di Banks, costretto a disdire in anticipo il sessantatreesimo cap, prenotato per la semifinale. Secondo Brera, a metter fuori l'Inghilterra furono "il caldo e l'altura, non soltanto la presunzione e la broccaggine". Forse è un'esagerazione; avevano incontrato una squadra molto forte, come il recente passato dimostrava e il futuro imminente avrebbe confermato. Ma, per la prima volta, gli inglesi avevano un titolo da difendere. Alleati nel nome della giustizia calcistica, Eupalla e Montezuma decretarono la loro sconfitta.

1973
Le vittorie che generano illusioni

Col senno di poi: tutta questa prosopopea per una partita vinta? D'accordo, non era mai successo - del resto, non è che ci siano state mille occasioni. Nell'esaltare con canti trionfali l'impresa non facciamo che tradire un sempiterno complesso di inferiorità nei confronti degli inglesi. "Forse gli inglesi siamo noi" (appunto), e con un "classico risultato all'inglese" (due a zero) abbiamo fatto nostro il match. Amichevole, certo, ma - si suol dire - a questi livelli non esistono confronti 'amichevoli'. C'è in gioco la tradizione, si rischia il prestigio. Vero è che Sir Ramsey, ormai alla frutta, ha portato i suoi in trattoria sulle colline torinesi la sera prima della partita, e alcuni di loro hanno fatto le ore piccole (non si sa chi, e non si sa quali ore). Logico che poi, in campo, gli albionici apparissero un po' frastornati: ma c'era bisogno di infierire su questi poveri "birilloni senza un'idea lucida nel cranio e quindi nella manovra"(Arpino)? Suvvia, siamo così abituati a esercitare la critica delle nostre vergogne, ci sia consentito un po' di sarcasmo - come a quegli allievi che hanno dimostrato di saperla più lunga di un maestro intontito e démodé. Anche perché di motivi per essere allegri ce ne sono davvero pochi: la lira è in picchiata, l'inflazione galoppa, il paese è (come quasi sempre) sull'orlo del baratro. Perlomeno, i nostri patemi non sono aggravati da un'altra sconfitta. Anzi, evviva: dopo il Brasile abbiamo battuto anche l'Inghilterra, la nostra è pur sempre terra tra le terre più fertili e antiche del football. Visioni alternative? "L'euforia per due vittorie abbastanza fasulle induce molta gente a sperare più del lecito nei mondiali dell'anno prossimo. Chi esita a entusiasmarsi passa per menagramo. In questo non siamo proprio cambiati" (Brera). E non cambieremo mai, anche questo è sicuro.
Cineteca

1982
Ove si narra di come il Brasile ebbe la meglio sui pedatori di tutte le Dinamo

Mi ricordo benissimo il gol Sócrates. La danza fuori dell'area, i due difensori elusi con altrettante finte, il controllo di esterno e poi il destro di pieno collo, all'incrocio dei pali, e il volo di Dassaev, che arriva a toccare ma non a deviare il pallone. E l'esultanza del dottore: una corsa con le braccia e lo sguardo che progressivamente si alzano, e la sua figura statuaria sommersa dall'abbraccio dei compagni. Fino a quel momento, una sola bandiera sventolava sugli spalti del Sánchez Pizjuán ed era quella sovietica. Il Brasile arrancava, zavorrato da un centravanti-ronzino e da un portiere insicuro. I pedatori di tutte le Dinamo erano passati in vantaggio (Andrij Mychajlovyč Bal', tipico prodotto di trasformazione del laboratorio di Kiev), ma alla lunga pagavano lo sforzo e la terribile afa di quell'estate spagnola: quando cala il sole, e un po' di frescura arriva sul prato, hanno ormai perso il fiato e l'energia. E' allora che il samba della torcìda e le trame di Zico, Sócrates e Falcao si fondono in un discorso sul football, frenetico e convincente, che finisce solo quando la partita è quasi finita, con il gol del due a uno.

2004
Non ci dovevi cascare, Francesco

Se fosse brasiliano, sarebbe osannato come Pelé. Se fosse inglese, avrebbe oscurato il mito di Bobby Charlton. Se fosse tedesco, lo considererebbero una sorta di incrocio tra Netzer, Hoeness e Fritz Walter. Se fosse francese non so. Invece è italiano, e - anzi - per gli italiani è soprattutto romano. Romano e romanista. Se fosse dell'Inter, della Juventus o del  Milan sarebbe considerato meglio di Meazza, meglio di Boniperti, meglio di Rivera. Ma è della Roma. Bravo sì, ma c'è sempre un dubbio. Il dubbio dilegua (apparentemente) quando lui cambia maglia, e indossa quella della nazionale. Lui è la stella che tutti attendono al varco. Per lui è vietato sbagliare, ma molti sperano che lo faccia. Lui deve decidere le partite, ma se le decide qualcun altro sono tutti più contenti. E soprattutto, essendo 'il' campione, deve comportarsi da campione. Sopportare i calci, reggere alle provocazioni. In effetti, quante deve averne sentite. E se mamma desse un'occhiata alle sue caviglie e alle sue ginocchia, gli vieterebbe di giocare ancora a pallone. Però, Francesco, è vero: non si sputa in faccia a un avversario, qualunque cosa ti faccia o ti dica. Lo so, è esattamente quello che Poulsen voleva ottenere: toglierti il pallone e possibilmente la partita, solo per un caso l'arbitro non se ne accorse. Dovevi ignorarlo, tapparti le orecchie, pensare a quel che sai fare, perché quel che non ti riesce ora - un dribbling, un passaggio smarcante di prima, un tiro imparabile - potrà riuscirti tra dieci minuti, tra quindici, tra venti; mal che vada, ti riuscirà nella prossima partita. Se ci sarà.
Italia-Danimarca (Euro 2004): Full match


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