30 maggio

1946
Il tulipano volante

Anche in Belgio e in Olanda, finita l'occupazione hitleriana, si può tornare al gioco del pallone. E dunque riacquistano attualità le loro antiche e forzatamente accantonate magagne, da risolvere sui verdissimi prati delle terre basse. Nel 1946 gli undici confinanti scaldarono i bulloni, fissando un doppio appuntamento. I primi a muoversi furono i belgi, che il 13 maggio si recarono in visita ad Amsterdam; all'Olympisch Stadion trovarono una confezione-dono di sei palloni, tutti gentilmente consegnati alle spalle del loro portiere, Piet Kraak. Buone relazioni di vicinato prevedono la reciprocità, e così tocca poi agli olandesi (il 30 maggio) varcare la frontiera, arrivare fino ad Anversa, raggiungere il Bosuilstadion, e vedere un po' cos'hanno intenzione di fare i sudditi dell'ambiguo Leopoldo III. Nulla. Solo vane formalità. E' verso la fine del primo tempo che Servaas 'Faas' Wilkes, mezzala d'attacco e grande stella del Xerzes di Rotterdam, perde la pazienza. Senza gol non si diverte. Ne cucina due, poi è tempo di  rientrare negli spogliatoi. Ad Amsterdam - detto per inciso - ne aveva serviti tre. Furibondi per lo sgarbo, i belgi tornano in campo e rendono subito pan per focaccia: due sberle, due a due. Poi si ricomincia a far salotto, come tra vecchi amici. Anche Wilkes è satollo. Si è fatto notare abbastanza. Diventerà professionista, verrà in Italia, sarà un grande dell'Inter nei primi 1950s, ma i colori dell'Olanda non li potrà più indossare fino al 1956. Peccato: perché in sole trentotto partite ha firmato la bellezza di trentacinque gol; dodici con autografo e dedica per i portieri del Belgio.
Tabellino | Wilkes: profilo e carriera internazionale


1957
La vana resistenza Viola

La primavera del 1957, per la nazionale italiana, è stata peggio che un incubo. Batoste durissime, in Portogallo e in Jugoslavia. E ancora brucia la prospettiva di non poter andare (a far che?) in Svezia. C'è, tuttavia, un altro modo di guardare al calcio, e dunque alla vita. I campioni d'Italia sono arrivati sino alla finale della Coppa dei campioni. E' solo la seconda edizione, ma gode già di un certo prestigio. Tuttavia e purtroppo, la finale si gioca contro il Real Madrid. Come non bastasse, si deve giocare sul campo del Real Madrid, a Chamartín. Monsù Poss è preoccupato, e gli si inceppa la prosa: "ci presentiamo con un timore che è inutile tacere e un'impressione che grava come una cappa di piombo su tutto l'ambiente nostro: quello che l'andamento del gioco e il risultato fra società di campionato non confermi senza reticenze né complimenti quanto è avvenuto fra le compagini nazionali, per quanto ci riguarda". Tutto sommato, le cose non vanno poi così male. Gli assi madridisti tardano a ingranare. La Fiorentina disputa "una partita maschia, lottando con i denti per non capitolare". Ci vuole un penalty (secondo Pozzo inventato) per schiodare il match quando - dopo 69 minuti "de angustia" (Mundo Deportivo) - già si sente puzza di extra-time, sgraditissima ai centoquarantamila nelle cui menti qualche dubbio cominciava a fare capolino. Lo trasforma Di Stéfano (foto), e cominciano a scorrere i titoli di coda.

1962
Ural-2

Quattro gironi, una partita per girone, tutte e quattro alla stessa ora. Inizia la Coppa Rimet organizzata dal Cile. L'attesa è stata lunga: quattro anni, e l'impazienza cresce. Si inganna il tempo. E' iniziata l'era dei cervelloni elettronici. Idea! Perché non sollecitarli a perforare schede e schedine che diano i giusti pronostici per il mondiale? Anche gli scienziati sovietici, in fondo, sono appassionati di football, e così alcuni di loro, nella pausa-caffè, chiedono il responso di Ural-2 (foto). Lo rimpinzano con un bel po' di dati, e quello - satollo e soddisfatto come si deve - produce tecnomanzia. Vincerà l'Unione Sovietica. "Evviva!". Infatti. E poi? L'Italia si qualificherà per i quarti di finale. Infatti. E poi? Anche il Brasile (oh bella, su questo nessuno si sarebbe azzardato a scommettere). E poi? Boh! Nel frattempo, le partite sono iniziate. Arrivano i gol. Il primo, a Rancagua. Più veloce di tutti è stato Héctor Facundo, attaccante del San Lorenzo de Almagro. Il suo gol, in Argentina-Bulgaria, resta unico e perciò decisivo. A proposito, Ural -2: e l'Argentina? Nessuna risposta. Dorme della grossa.



30 maggio 1964
La collezione di Bobby Moore

Bobby Moore non collezionava francobolli o figurine, ma magliette di Pelé. Tutti o quasi hanno negli occhi la famosa immagine dei due a torso nudo dopo la bella partita di Guadalajara del 1970; ma la stessa cosa era avvenuta al Maracanã il 30 maggio del 1964, a leggere le cronache. Si inaugurava un bel quadrangolare, oltre alla Seleçao e agli inglesi partecipavano Portugal e Argentina. Ovviamente, il Brasile diede spettacolo. Pelé disputò "una partita sensazionale meritandosi l'ammirazione dei suoi stessi avversari. Appena terminata la gara, infatti, il capitano degli inglesi Moore gli è corso incontro e gli ha tolto la maglietta che ha voluto conservare per ricordo" (Stampa sera, 2 giugno 1964, p. 9). Era finita cinque a uno per i verde-oro. Si capisce perché O Rey abbia poi sempre affermato che Moore era il più corretto difensore che avesse mai incontrato: perché iniziava a marcarlo stretto solo dopo il novantesimo. Come che sia, i due non si persero mai di vista, e parecchie volte hanno posato per i fotografi, fino ai tardi 1970s (foto), quando entrambi collaborarono nell'inutile tentativo di evangelizzare gli Stati Uniti.
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1969
Duello per le tortillas

Otto posti a tavola su sedici avranno le europee al banchetto messicano - anzi nove, perché gli inglesi devono portare la coppa e dunque sono invitati aggratis. In trenta, quindi, si devono azzuffare per conquistare il biglietto. Poiché non è consigliabile una rissa generale, vengono divise in gruppetti, quale da tre, quale da quattro rappresentative nazionali. In uno di questi, ci sono - nientemeno - Ungheria e Cecoslovacchia, cioè le finaliste sconfitte di ben quattro mondiali. Purtroppo, una delle due soccomberà. Il primo duello si svolge al Népstadion. Due squadre giovani, fondate l'uno sul blocco dell'Ujpest e l'altro su quello dello Spartak di Trnava, entrambe di più che discreto livello europeo. Prevalgono gli ungheresi con un classico due a zero - sblocca un esordiente (Antal Dunai, foto) e rifinisce il veterano (Flórián Albert) -, mettendo in cassaforte almeno mezza illusione di poter essere loro a spiccare il volo per il continente americano tra un anno esatto.
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30 maggio 1984
Circo Massimo

La città è eterna e sempre lo sarà, e dunque prima o poi una squadra di Roma riuscirà a vincere la Coppa dei campioni - torneo pure destinato ad esistere sino alla fine dei tempi; che la fine dei tempi debba poi coincidere con la fine della storia del calcio (o viceversa), non è detto (anzi). Finora, è vero, c'è stata una sola possibilità. La Roma di Liedholm, Bruno Conti e Falcao ha acciuffato - a fatica ma l'ha acciuffato - il diritto di giocarsela con il Liverpool. All'Olimpico, per di più. L'Olimpico è troppo stretto, stasera. Al Circo Massimo ci sono un milione di persone e un maxi-schermo. Ma c'è il Liverpool. E' uno squadrone, si sa. Chi indossa quelle maglie è già andato e tornato dall'inferno mille volte. Una finale di questa coppa, loro, non l'hanno mai persa. E difatti, eccolo lì: Phil Neal, il terzino destro. E' un vecchio bucaniere, sa sempre dove piazzarsi. C'è una mischia in area, il pallone impazzisce e si placa solo quando finisce tra i suoi piedi. Uno a zero. La salita è già iniziata. Pruzzo si esercita nella sua specialità: colpo di testa acrobatico in avvitamento (foto). Uno a uno. Poi una sofferenza infinita, fino allo stillicidio dei calci di rigore. La serata finisce come tutti - sotto sotto - temevano. Ci sarebbe stata una soluzione: portare i Reds al Circo Massimo, e darli in pasto ai leoni. E invece, nessuno ha più voglia di cantare, verso mezzanotte, nelle strade di Roma, caput mundi.